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Divagazioni semi-giuridiche / 1

Alcuni anni fa, nel 2012, la Fondazione Forense Bolognese mi chiese di presentare un film per il cineforum degli avvocati, evento collaterale rispetto ai numerosi incontri di aggiornamento professionale che la Fondazione organizza.

Per non cadere nella trappola del solito legal thriller, proposi il film del 2002 “Minority Report” di Spielberg, in cui non compare neanche un avvocato, ma il cui tema è di grande interesse per il mondo della giustizia: il libero arbitrio.

Il film è ispirato da un racconto di fantascienza del grande scrittore Philip K. Dick, le cui immaginazioni hanno il potere di diventare ogni giorno più attuali.

I rischi alla libertà personale derivanti dall’utilizzo esasperato dell’Intelligenza Artificiale ci aspettano dietro l’angolo nel prossimo futuro ma, probabilmente, riflettono solo gli incubi, provenienti dal passato, generati da Philip K. Dick.

Alcune riflessioni svolte nell’ormai lontano 2012 vennero anche pubblicate sulla rivista Bologna Forense.

Le riporto qui di seguito. In alternativa, è possibile scaricare il file cliccando su questo link: BolognaForense2012n1-minority-report

Cosa c’entra un film hollywoodiano di fantascienza in cui non compaiono avvocati con i cineforum della nostra Fondazione? Apparentemente nulla, però le cose cambiano se il racconto da cui è tratto il film è di Philip K. Dick, il regista è Steven Spielberg e il messaggio finale è un appello allo spettatore-cittadino a tenere sempre vivo il fuoco della propria coscienza civile.

Il film Minority Report è tratto dall’omonimo racconto del 1954 di Philip K. Dick. Negli anni del maccartismo pare che lo scrittore fosse sorvegliato dall’F.B.I. in quanto sospettato di essere filocomunista. Quest’esperienza generò nell’autore una vera e propria ossessione per il controllo delle vite da parte delle autorità, amplificata da problemi personali e dall’abuso di sostanze stupefacenti. Tutto ciò è stato ovviamente riversato nei suoi geniali racconti e romanzi, ambientati per lo più nel futuro e caratterizzati, fra l’altro, dalla presenza invadente della tecnologia che porta sempre, oltre al progresso, alla limitazione delle libertà personali.

A quasi 50 anni di distanza, nel 2002, Spielberg decide di girare un film tratto dal racconto di Dick e di ambientarlo in un futuro a noi vicino, nel 2054, prefigurando un’epoca dominata dalla tecnologia, sviluppatasi al punto tale da controllare nel bene e nel male le vite degli esseri umani.

Siamo a Washington, alla vigilia di un importante referendum in cui i cittadini americani dovranno decidere se rendere efficace,estendendolo all’intera nazione,l’esperimento condotto nella capitale federale con l’inserimento di una particolare polizia, chiamata Precrime, in grado di intervenire prima che si compiano i delitti. Per rendere possibile lo scopo, vengono sfruttate le capacità di tre soggetti (pre-cognitivi) in grado di prevedere gli omicidi che verranno compiuti in città e di inviare le immagini dei delitti sugli schermi iper-tecnologici della polizia che, a sua volta, è chiamata a individuare il futuro colpevole e ad intervenire sul luogo del futuro delitto prima che la previsione si avveri. Il futuro assassino viene poi internato a tempo indeterminato in un inquietante luogo di detenzione, senza preventivo processo, senza possibilità di avvalersi di un avvocato difensore e con il solo video-consenso all’arresto di due testimoni-giudici che esaminano le immagini dell’omicidio prima che venga commesso.

Il primo tema che viene affrontato e sviluppato dal film è dunque la fine apparente del libero arbitrio: se le nostre azioni sono necessitate e prevedibili (sia pure da soggetti particolari) ha ancora senso parlare di colpevolezza, di possibilità di scegliere fra il bene e il male? Che senso ha un sistema di giustizia e, prima ancora, una legge morale che distingua tra ciò che è buono e ciò che è cattivo, se non siamo liberi di decidere le nostre azioni?

È solo fantascienza? Oppure Dick e Spielberg sfruttano il genere per provocarci una riflessione e affidarci un messaggio più attuale?

È necessario tenere presente che il film è stato girato nel 2002, pochi mesi dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001 ai quali il governo americano aveva reagito adottando nell’ottobre 2011 il Patriot Act, che aumentò la capacità di sorveglianza e acquisizione dati delle autorità federali e introdusse la possibilità di detenzione senza vaglio giudiziale per i sospettati di attività lesive della sicurezza nazionale.

La riduzione dei diritti individuali in momenti critici per la sicurezza degli Stati non è un fenomeno esclusivamente americano: dopo l’11 settembre il Regno Unito stabilì in capo a un organo speciale istituito ad hoc il potere di disporre la detenzione a tempo indeterminato di cittadini stranieri sospettati di attività terroristiche, senza accordare ai sospettati la possibilità di farsi difendere da un avvocato di fiducia.

In Germania, negli anni ‘70, il sospettato di terrorismo poteva parlare con il proprio legale solamente attraverso un intermediario che poteva riferire alle forze dell’ordine il contenuto dei colloqui.

Anche nel nostro Paese, ogni periodo critico dal punto di vista della sicurezza viene affrontato dal legislatore con un proliferare di norme penali (definito pan-penalismo dalla dottrina): vengono create nuove fattispecie di reato come, ad esempio, i delitti di attentato che puniscono come reati pieni atti che, al più, sono qualificabili come tentativo o, ancora, i delitti di sospetto che non ledono interessi ma lasciano presumere la futura commissione di ulteriori reati.

Nessuna democrazia è dunque immune: la paura per la sicurezza porta sempre alla restrizione delle libertà personali e delle garanzie individuali.

Considerando come vengono svolti i processi in Minority Report, si potrebbe affermare che l’aumento della sicurezza, di pari passo al progredire delle tecnologie, comprime necessariamente, almeno in parte, i diritti dell’uomo.

E dove ci sono meno diritti, ci sono meno avvocati o, come accade nel film, non ce ne sono affatto. Questo il film non lo dice esplicitamente, ma l’”occhio clinico” dell’avvocato non può non notarlo.

Il film pertanto stimola fino a costringere a una scelta: così come i cittadini nella finzione cinematografica vengono chiamati a un referendum per decidere il futuro della Precrime, così i cittadini-spettatori della realtà vengono invitati a scegliere se preferiscono il bene sicurezza fino all’estremo, ovvero se ritengono non negoziabile la garanzia dei propri diritti di libertà.

E la scelta dello spettatore-avvocato è particolarmente qualificata: se più sicurezza uguale meno diritti, allora è necessario riscoprire con rinnovata passione l’importanza sociale della nostra professione.

Un testo purtroppo poco conosciuto è il codice deontologico degli avvocati della Comunità Europea, il cui art. 1.1 testualmente afferma: “In una società fondata sul rispetto della giustizia, l’avvocato interpreta un ruolo eminente. La sua missione non si limita alla esecuzione fedele di un mandato nell’ambito della legge. In uno Stato di diritto l’avvocato è indispensabile alla giustizia ed a coloro di cui deve difendere i diritti e le libertà; … La sua missione gli impone una serie di doveri e di obblighi, a volte in apparenza contraddittori, verso: … la società, per la quale una professione liberale e indipendente, autonoma nel rispetto delle regole che essa si è data, è un mezzo essenziale per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato e degli altri poteri”.

Una semplice lettura o rilettura del testo non è però sufficiente: forse, per contribuire a evitare l’inquietante futuro del 2054 ormai alle porte delineato nel film, occorre riuscire a trasformare un semplice dettato deontologico per lo più auto- referenziale in un principio riconosciuto dalla nostra società. Solo così onoreremo la nostra “missione”.

W.F.