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SI FA PRESTO A DIRE MADE IN ITALY

Tutti conosciamo l’importanza, per un prodotto, di potersi fregiare della dicitura “made in Italy”.

I vecchi quattro pilastri dell’industria italiana, le famose “quattro A” (Abbigliamento, Agroalimentare, Arredamento, Automobili), si fondano sulla capacità di attrazione e sulla garanzia di qualità di cui è, quasi magicamente, dotata l’indicazione “made in Italy”.

Non è sempre facile stabilire chi possa utilizzare questa indicazione.

Il Decreto Legge n.135/2009, convertito con modificazioni dalla L.166/2009, all’art.16, comma 1, stabilisce che “Si intende realizzato interamente in Italia il prodotto o la merce, classificabile come made in Italy ai sensi della normativa vigente, e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano”.

Da questo elenco sono escluse le materie prime: fin dalle elementari ci viene infatti insegnato che il nostro Paese, privo di materie prime sufficienti, ne importa quantitativi considerevoli, ma eccelle nell’attività di trasformazione delle stesse.

Questo significa che molte delle nostre eccellenze agroalimentari, pensiamo ad esempio alla pasta o ai nostri prosciutti, ma l’elenco potrebbe continuare, sono fatte in tutto o in parte con materie prime di importazione (nel caso degli esempi, con grano straniero e con suini stranieri alimentati da mangimi stranieri e, magari, contenenti ogm). E sono tutte legittimate a fregiarsi del titolo di “made in Italy”.

La faccenda non è detto che abbia risvolti negativi (straniero non significa a priori di scarsa qualità, anzi. Alle volte una delle capacità industriali sta nel selezionare la materia prima da importare per adeguarla allo standard qualitativo del prodotto finito italiano), tuttavia non si può certamente affermare che l’informazione del consumatore sia la questione prioritaria per tutti gli operatori commerciali.

A tutela della salute e della sicurezza alimentare, il Reg. CE 178/2002, all’art.18, prevede che “E’ disposta in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione, la rintracciabilità degli alimenti, dei mangimi, degli animali destinati alla produzione alimentare e di qualsiasi altra sostanza destinata o atta a entrare a far parte di un alimento o di un mangime. Gli operatori del settore alimentare e dei mangimi devono essere in grado di individuare chi abbia fornito loro un alimento, un mangime, un animale destinato alla produzione alimentare o qualsiasi sostanza destinata o atta a entrare a far parte di un alimento o di un mangime”.

Da tale normativa il consumatore è auspicabilmente tutelato, tuttavia la rintracciabilità resta in genere riservata agli operatori alimentari.

Solo recentemente si è cercato di tutelare ancor di più il diritto di informazione del cittadino-consumatore. Infatti, la normativa UE relativa alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, prevista dal Reg. UE n.1169/2011 entrato in vigore nel dicembre del 2014, stabilisce all’art.9 l’obbligo di indicare nell’etichetta, tra l’altro, il paese d’origine o il luogo di provenienza solo nei casi previsti dal successivo art.26. In generale, fatta eccezione per i prodotti ove l’indicazione dell’origine è prescritta da una normativa di settore (ad esempio, ortofrutta, ittici, carni bovine, olio d’oliva ecc.), l’informazione è obbligatoria “nel caso in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento, in particolare se le informazioni che accompagnano l’alimento o contenute nell’etichetta nel loro insieme potrebbero altrimenti far pensare che l’alimento abbia un differente paese d’origine o luogo di provenienza”.

Per capire cosa si intenda per “paese d’origine”, il Reg. in parola rimanda agli articoli da 23 a 26 del regolamento CEE 2913/92, che istituisce un codice doganale comunitario. Tale normativa indica che “una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più Paesi è originaria del Paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

Il comma 3 dell’art.26 Reg.1169/2011 inserisce l’importante precisazione secondo la quale, quando il Paese d’origine o il luogo di provenienza di un alimento è indicato in etichetta e non è lo stesso di quello del suo ingrediente primario: a) è indicato anche il Paese d’origine o il luogo di provenienza di tale ingrediente primario; oppure b) il Paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario è indicato come diverso da quello dell’alimento.

Molti interessi incidono sulla materia, sicuramente l’applicazione della normativa darà spunto ad ulteriori considerazioni.

Certo è che solo con una accurata predisposizione delle etichette (anche utilizzando i moderni sistemi tecnologici) le aziende possono far comprendere ai consumatori la qualità del loro prodotto e del loro lavoro.

Alle volte, invece, l’etichetta viene vista come un mero adempimento a noiose normative o, peggio, un luogo dove cercare di rendere meno evidenti alcune informazioni.